“Le ricadute psicologiche della cistite ricorrente rappresentano una problematica importante, perché la classe medica e in particolare i medici di base spesso non conoscono a sufficienza questa patologia. Talvolta, nel mio studio arrivano pazienti provati da 8-9 anni di sofferenze, con una malattia in progressivo peggioramento e uno stato psicologico che, sebbene non manifesti i segni della patologia psichiatrica, mostra senz’altro la grave prostrazione che dalla cistite è indotta. Si pensi che, fino a pochi anni fa, i pazienti riuscivano ad avere una corretta diagnosi dopo 10-15 anni dall’insorgenza dei primi sintomi; oggi, fortunatamente, questo intervallo temporale si è ridotto a circa tre-sei anni e spesso sono i pazienti stessi, dopo aver fatto ricerche su Internet, a chiedere un consulto specialistico, senza la mediazione del medico curante. In ogni caso le implicazioni psicologiche nei pazienti affetti da cistite ricorrente sono pesanti e, va detto, spesso trascurate. Ricordo il caso “esemplare”, molti anni fa, di una giovane donna ricoverata in un Reparto di Psichiatria: ero stata incaricata di fare una semplice consulenza per una banale cistite e mi trovai di fronte a una paziente devastata, consunta dalla malattia, trattata con forti dosi di psicofarmaci. Con il dialogo scoprii che la paziente attribuiva la propria condizione unicamente all’insorgenza di disturbi urinari fortemente invalidanti, che avevano condizionato la sua vita sociale e i rapporti con i familiari.
Approfondendo la materia riuscii a individuare nella cistite interstiziale la possibile causa delle sue sofferenze e a trasferirla in un reparto più consono, dove grazie alle terapie allora disponibili, basate su cocktail di eparina e bicarbonato, e al feeling instaurato con la paziente, dopo svariati mesi riuscimmo a registrare un miglioramento veramente importante. Oggi, quando un paziente si rivolge a me, strutturiamo un percorso che vede impegnati parallelamente medico e psicologo, che dalla seconda seduta si prende carico del paziente e lo sottopone a test psicometrici per delinearne un profilo e individuare i punti su cui lavorare. Grazie a questa sinergia, abbiamo individuato dei tratti psicologici spiccati, che sono comuni ai pazienti (specialmente donne) affetti da questa patologia; ma, soprattutto, siamo riusciti a costruire un triangolo in cui paziente, medico e psicologo possono interagire reciprocamente con profitto. Questo consente di instaurare rapporti basati sulla fiducia, fondamentali per ottenere, nell’arco di tre-sei mesi, risultati brillantissimi.
E’ bene sottolineare che lo stress non ha un ruolo nell’insorgenza nella malattia, ma è conseguente al suo manifestarsi: i pazienti hanno una vita sociale fortemente condizionata, si isolano, non vanno più a lavorare. Sono ansiosi, depressi, mostrano tendenze suicide e un rifiuto totale per il loro stato. Siamo di fronte dunque a un problema sociale grave, troppo spesso sottostimato, su cui occorre lavorare per aumentare da una parte l’informazione e dall’altra la sensibilizzazione, anche da parte degli Operatori Sanitari e delle Istituzioni”.